giovedì 11 dicembre 2008

breve storia di un caffe, una questione culturale...

é sulla piazza che da sulla moschea (e in questo vi é grande similarita con cio che ci é familiare) che si affacciano i bar di questa marrakech.
gia da fuori si annuncia un affollato ordine che stranizzerebbe profondamente un catanese.
tavolini e sedie sono schematicamente disposti a guardare la piazza, ovvero la moschea e la gente che entra ed esce.
all'interno stessa storia.
l'attenzione si focalizza pero su un grande schermo al plasma che trasmette agguati mortali di bestie lontane.
ancora ordine, e attenzione religiosa verso una leonessa che azzanna un animale sconosciuto.
e silenzio appena mormorato.
una sorta di fotografia, immobile, di un momento presente. si muove solo il fumo dalle sigarette.
io arrivo, memore dell'espresso italiano trangugiato in piedi, mi appresto al bancone semideserto (il bar invece é pieno).
resto li e il cameriere mi guarda come se fossi la guardia di finanza per un controllo.
lo seguo con lo sguardo e lui va a servire i clienti seduti e silenziosi.
colonizzo il suo spazio di lavoro e, quando la situazione tra noi si fa proprio pesante, mi chiede se mi voglio sedere ad uno dei pochi tavoli liberi.
non merci, gli rispondo e mi gusto il suo sguardo sconcertato mentre si allontana verso altri clienti sopraggiunti.
infine, nonostante si sforzi di credere che nessuno prenderebbe mai il the in piedi, si avvicina e sommessamente mi chiede cosa voglio: cahua, noir, normal.
con un gesto ancora incredulo mi indica, qui?
oui, s'il vous plait.
mentre aspetto il caffe si avvicina un avventore che mi scambia per uno di casa, visto la posizione inusuale, mi saluta, mi da la mano, mi dice qualcosa che non capisco...
quando realizza che sono fuori posto se ne va scuotendo la testa.
arriva il caffé, che non é affatto un espresso anche per motivi di tempistica, ma io fingo, lo trangugio li, in piedi, e vado via.
andandomene penso ad anni di colazioni alla buvette del ministero, nella ressa, con le ragazze del bar e gli altri clienti che ti invitano, con parole e opere, a consumare il tuo cornetto e il tuo cappuccino fuori, nel corridoio, per liberare il banco: sedersi non é nemmeno previsto.
tutta un'altra cultura...

2 commenti:

alias_parolina ha detto...

Mi piace questa storia. Dev'esserci per forza una differenza fra il mondo dell'espresso e quello del caffè alla turca (nella versione kosovara che ho conosciuto io, quantomeno). Il caffè alla turca ti chiede di avere la pazienza di aspettare che si depositi ben benino sul fondo, e nell'attesa ti dà il modo di parlare con chi te l'ha offerto, rigirando fra le mani la tazza. Se sei solo, ti dà modo di pensare. Prendere un espresso è un pretesto, prendere il caffè alla turca è una conversazione. Chissà... se alle buvette dei Ministeri si fosse costretti ad ascoltarsi ed aspettare... come sarebbe.
Cate (mi infiltro, dopo avere per vario tempo solo letto... posso?)

Carmelo ha detto...

ma certo!

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